Erano almeno vent’anni che non si vedeva qualcosa di simile. Una protesta massiccia, con decine di migliaia di persone che scendono in piazza, invadono le vie del centro, si allargano nei quartieri limitrofi, imboccano le entrate della metro, saltano i tornelli e appiccano il fuoco un po’ ovunque, concentrandosi sui simboli di un malessere diffuso, violento, selvaggio, quasi indiscriminato.
Da “isola felice” come veniva solo pochi giorni fa definita dal presidente Sebastián Piñera, il Cile si scopre paese sull’orlo di una crisi che cova da tempo. Giovedì scorso e poi ancora ieri la capitale Santiago ha vissuto momenti di grandissima tensione. Folti gruppi di anarchici, black-bloc e antagonisti si sono accaniti contro tutto quello che trovavano lungo il loro cammino che con il passare delle ore si è trasformato in un ciclone di assalti, saccheggi, incendi. Vetrine infrante, auto date alle fiamme, negozi svuotati, centraline elettriche incendiate.
Il governo ha gettato la spugna. Ha risposto con la sola arma che aveva a disposizione. Ha decretato lo stato di emergenza e ha ceduto la capitale ai militari. Vietate ogni forma di manifestazione, di riunione e di movimento. Limitate le libertà personali. Il presidente ha nominato un capo della Difesa Nazionale dell’Esercito a cui ha delegato il rispetto del provvedimento. Le violenze, gli incendi e le distruzioni si sono accaniti soprattutto sulla rete della metropolitana, fiore all’occhiello del paese per la sua efficienza e modernità.
I carabineros hanno usato la mano pesante. Sono intervenuti in diversi punti della città e si sono scontrati duramente con i manifestanti. Il caos regnava ancora ieri in tutta Santiago. L’irruzione nelle stazioni della metro senza pagare di decine di migliaia di utenti era iniziata due giorni fa. Una forma di protesta che aveva creato una perdita per il gestore della compagnia di 700 mila dollari. Usata da 2,8 milioni di utenti, la rete della sotterranea, chiamata Red Metropolitana de Movilidad, aveva subito già una ventina di rincari: da 420 pesos (0,59 dollari), il biglietto era passato a 800 (1,13 dollari) e tre giorni fa era arrivato a 830 (1,17 dollari).
È stata la scintilla che ha scatenato la protesta diventata poi una guerriglia da vero inferno. Nessuno sapeva o immaginava cosa covasse nel cuore del paese. Gli appuntamenti sono stati dati con i social e le messaggerie.
Esperti e commentatori, al di là delle condanne per le violenze, confermano che si tratta di un malessere diffuso che il governo non è in grado di cogliere. Il costo della vita è aumentato, il valore delle case è schizzato alle stelle, i salari restano bassi. Sono giovani e giovanissimi i protagonisti di questa rivolta. Chi accettava di parlare spiegava il rifiuto di voler seguire la strada imboccata dai loro vecchi che devono fare i conti con debiti, prestiti a tassi esosi.
Una vita fatti di stenti, con salari che non ti fanno arrivare a fine mese. Le scelte liberiste dei governi di destra mostrano il fiato corto. Anche in Cile. L’illusione è finita. La presunta “oasi” deve fare i conti con la realtà. Cresce il divario tra ricchi e poveri, la classe media è in affanno. Non basta un maquillage esterno, tra centri commerciali moderni e grattacieli, per coprire le difficoltà di una società divisa e frammentata. Basta una scintilla per appiccare l’incendio. Per spegnerlo si ricorre ai militari e ai carabinieri: un fantasma che riporta indietro. A qualcosa che nessuno vuole più rivivere.
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